Il Nome della Rosa

25 febbraio 2024

La narrazione post-opensource emersa nel recente passato ha – a suo modo – tentato di sollecitare una “evoluzione” del modello open source stesso, che (sulla carta) potesse far convivere la trasparenza del codice con una presunta garanzia di sostenibilità economica. Idea poi formalizzata in una variegata serie di licenze software di ispirazione classica (GPL in primis) ma tutte sistematicamente epurate dall’odiata Libertà 0. Per i profani: quella che permette a chiunque, non solo all’autore, di trarre profitto economico dal codice stesso. E sebbene l’intero sistema dialettico sia stato innescato e sia sempre stato corroborato da una forte e spesso scomposta contestazione del modello capitalistico, opprimente sfruttatore dell’altrui lavoro erogato volontariamente in modo gratuito (…), è curioso notare come esso abbia invece gemmato e concimato nuove forme di acrobazie comunicative da parte dei più raffinati esponenti del capitale stesso.

Il primo esempio interessante è quello di HashiCorp, azienda rea di aver cambiato da un giorno all’altro la licenza di Terraform – popolare strumento di automazione dei processi cloud – rendendolo un prodotto proprietario. Il CEO Dave McJannet, intervistato dopo l’annuncio del fork promosso da Linux Foundation inteso a preservare l’originario progetto libero e aperto, reagì sdegnato invocando “the realisation that the open source model has to evolve“. Una posizione piuttosto diversa rispetto a quella espressa dai suoi omologhi in circostanze analoghe (rispetto ai quali ha comunque dimostrato maggiore onestà intellettuale, adducendo come motivo del cambio di rotta non presunte ed infondate perdite economiche ma un diretto interesse degli investitori), in quanto non esprime biasimo per i sedicenti vincoli propri dell’open source ma arriva a proporre una diversa concezione del modello open source stesso. O, almeno, un diverso significato comunemente applicato a questo termine.

Come, mesi dopo, ha suo malgrado spiegato con maggiori dettagli Scott Chacon, CEO di GitButler, nell’accrocchiare su TwiXter giustificazioni sul fatto che la piattaforma da esso rappresentata era appena stata rilasciata con una licenza “diversamente open source” che proibisce l’utilizzo commerciale della stessa. Ed esplicitamente ha scritto che, stando al suo punto di vista, per tutti (?!) “open source” vuol letteralmente dire “public on GitHub“, e per evitare incomprensioni (??!!) questo unico significato dovrebbe essere quello comunemente in uso – ignorando qualsiasi altra definizione che Open Source Initiative pretenderebbe di dare senza averne diritto alcuno (???!!!).

McJannet in modo più sobrio, e Chacon in modo più pirotecnico, nelle loro rispettive posizioni di direttori di startup finanziate da venture capital a caccia di profitti e rendite, non dicono essenzialmente nulla di diverso rispetto al movimento etico e moral(izzator)e citato in apertura: in funzione del diritto di sfruttamento economico (che è sinonimo talvolta di “profitti” e talvolta di “sostenibilità”, a misura del proponente), il codice è pubblicamente consultabile e persino in qualche misura utilizzabile ma nulla di più. Guardare ma non toccare. Ma McJannet e Chacon, nelle loro rispettive posizioni di direttori di startup che fanno del marketing – ancor prima della tecnologia – la loro propria ragion d’essere, stanno ben attenti a non compiere il medesimo errore dei circoli para-filosofici di cui sopra, e preferiscono veicolare il proprio messaggio non tentando di radicare nuove mitologie e nuove ontologie ma sfruttando quelle che già esistono. Mirando a inculcare un nuovo valore ad una parola che già tutti conoscono.

Sarebbe stato troppo ingenuo dichiarare, in modo semplice e chiaro, “Da oggi il nostro prodotto è Source Available“, termine già coniato, già conosciuto e che già indica esattamente e precisamente la condizione desiderata. Perché rinunciare all’opportunità di presentarsi come “soluzione open source” è un danno, uno svantaggio, un ostacolo. Ed i detrattori lo sanno. Il “brand open source” è amato ed apprezzato dal pubblico in quanto ispiratore di fiducia, in virtù del carico di implicazioni – tutte positive, almeno per gli utenti ed ancor più per i clienti – che porta con sé, dunque poterlo ostentare sulla propria homepage permette di godere di quella stessa fiducia che è stata costruita da altri. Anziché correre il rischio di perdere tale universalmente riconosciuto marchio di qualità – auto-assegnato per auto-certificazione – tanto vale buttarla in caciara e sperare che qualcuno ci creda per davvero. I puristi storceranno il naso, ma gli investitori che approvano i finanziamenti ed i manager che firmano i contratti d’acquisto non noteranno la differenza.

Purtroppo non siamo dotati di ferri roventi digitali con cui vistosamente marchiare a fuoco gli impostori sulla pubblica gogna dell’internet. Ed è certo che episodi analoghi continueranno a proliferare, in mancanza di argini che possano contenerli. Ma val la pena pensarci, e non prestare il fianco più di quanto strettamente necessario ed ineluttabile. Affinché il termine “open source” non diventi una vana buzzword con cui decorare le brochure.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

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