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Compagno Tux

13 gennaio 2024

Questo articolo, trovato tempo fa scorrendo pigramente la timeline di un social network, mi ha rammentato un pensiero sorto oramai anni addietro: alla comunità linuxara manca una coscienza di classe.

Tale pensiero è emerso dopo l’ennesima conversazione con l’ennesimo rampante attivista linuxaro, uno di quelli inflessibili nei confronti dell’utilizzo esclusivo di Linux e del software libero da parte delle masse (e delle scuole, e delle pubbliche amministrazioni…), che lanciando i suoi strali ai danni di Microsoft, Google o del Governo miope e colluso pronunciò la magica frase “Poi sì, io Windows lo uso, ma solo perché devo per lavoro. Sai: l’ufficio, la famiglia, i figli…”. Non so dire dove e quando suddetta conversazione avvenne, perché di analoghe ne ho avute a dozzine: fiumi di linuxari intransigenti di notte e nei weekend, e operatori al servizio del software proprietario (e molto spesso proprio dei BigTech, in modo più o meno diretto) dalle 9 alle 18. Ma ricordo che proprio quella specifica occasione mi portò a prendere atto del triste stato delle cose: a prescindere da valori e principi, risorse e competenze vanno comunque altrove.

Cosa non da poco. Perché proprio la disponibilità di risorse e competenze consolidano i monopoli, ed anzi sono la ragione stessa dell’esistenza dei monopoli. E, viceversa, la scarsità – o comunque il difficile reperimento – di risorse e competenze in ambito Linux rallentano ed ostacolano l’adozione e la diffusione, magari proprio presso quelle stesse masse (e quelle scuole, e quelle pubbliche amministrazioni…) che vorrebbero compiere qualche passo in quella direzione ma non sanno a chi rivolgersi e finiscono dunque col dover rinunciare.

In cosa dovrebbe consistere questa “coscienza di classe linuxara”? Nell’adottare anche sul proprio posto di lavoro quelle attitudini che abitualmente si manifestano sulle mailing list, sui canali Telegram, e in altri ricettacoli di smanettoni. Senza necessariamente essere oltranzisti (del resto: si parla del proprio lavoro, mica di quello di qualcun altro…) ma mettendoci almeno un poco di buona volontà.

La forma più ovvia e scontata è quella di promuovere una esplicita adozione di soluzioni open source nel proprio ufficio, cosa che spesso fallisce se ci si rivolge direttamente al management – molti dirigenti vivono in quella dimensione parallela in cui “Microsoft” è sinonimo di “professionalità”, convinzione basata su una fede di carattere religioso e pertanto difficile da confutare – ma che talvolta attecchisce quando si coinvolgono i colleghi – spesso più aperti nel provare qualcosa di nuovo, essendo implicitamente percepito come stimolante – o si reitera il messaggio per un numero sufficiente di volte.

Aneddoto motivazionale. Molti anni fa facevo il programmatore in una azienda le cui procedure interne non erano particolarmente sofisticate ed in cui il codice veniva scambiato tra i colleghi su chiavette USB, con tutti i grattacapi che si possono facilmente immaginare in caso di modifiche concorrenti sugli stessi file. Il sistemista dell’azienda – che fungeva anche da oracolo per tutte le questioni tecnologiche – era un fan-boy Microsoft (e, conseguentemente, un detrattore dell’open source), e percependo che era giunta l’ora di adottare una soluzione un tantino più evoluta di code sharing si rivolse a me – all’epoca, il dipendente più giovane e pertanto il più flessibile nei confronti dei cambiamenti – per indurmi ad iniziare a usare Perforce, ovvero quel che al tempo era una sorta di distribuzione commerciale e proprietaria di SVN il cui client esisteva solo per Windows. Alché io – già all’epoca convinto adepto della setta linuxara, allibito all’idea di dover lavorare su un PC Windows – ho recuperato un vecchio computer desktop non più utilizzato, ci ho installato sopra Debian e FusionForge (un antesignano di GitLab), con la maliziosa complicità di un paio di colleghi anziani l’ho piazzato in uno sgabuzzino, ed ho iniziato a committare lì la mia roba, istruendo man mano tutti gli altri all’utilizzo dell’issue tracker integrato (più ordinato ed efficiente dei pizzini di carta su cui mi avevano annotato bug e segnalazioni fino a quel momento) e poi all’utilizzo stesso di SVN per scambiarsi le loro proprie modifiche. Un anno dopo, quello nello sgabuzzino era per tutti (dirigenti aziendali compresi) il server ufficiale per la condivisione del codice interno, nessuno parlò mai più di Perforce, sulla mia postazione di lavoro continuavo ad adoperare solo Linux, ed il sistemista mi aveva tolto il saluto.

Dopodiché esistono diverse altre accortezze che sarebbero opportune. Come evitare di favorire la ricerca di nuovo personale da parte di chi assume sistemisti Windows e programmatori .NET, ed evitare di far circolare tali appelli tra le proprie conoscenze. E prendere atto del fatto che se si manda un giovanotto alla prima esperienza a configurare le stampanti nelle LAN ActiveDirectory aziendali o a mantenere i vecchi gestionali contabili in C# dei clienti non solo non gli si sta facendo un gran favore, né personale né professionale, ma si stanno attivamente e deliberatamente sottraendo risorse e competenze alla Causa di cui sopra. Persino ci si può spingere a veicolare all’interno della propria azienda il proposito di sostenere economicamente i progetti open source che vengono utilizzati per le attività professionali, alla luce del fatto che qualsiasi azienda – pure la meno linuxara dal mondo – qualche strumento open source, suo malgrado, lo adopera.

Certo non si può ignorare il fatto che chi ha famiglia e figli a carico possa avere delle giuste e lecite remore nel lasciare il proprio posto fisso per andare a consultare i (pure abbondanti) annunci di lavoro per sistemisti Linux o programmatori web/IoT, ed andare ad incorrere volontariamente in tutte le incertezze di una nuova e differente occupazione. Ma – nel momento in cui ci si accolla la responsabilità di farsi portavoce della Causa Freesoftware – qualche accortezza bisognerebbe pur prenderla. Almeno, non una di più e non una di meno rispetto a quelle che così calorosamente si pretendono nei confronti delle masse (e degli operatori nelle scuole, e nelle pubbliche amministrazioni…).

Linuxari di tutto il mondo, unitevi.

Algebra Industriale

16 luglio 2020

Da sempre la politica è abituata ad interloquire (ovvero: dialogare, fare concessioni, trovare compromessi) con i grandi gruppi industriali sulla scorta di un ragionamento molto semplice: grande industria = grandi investimenti = tanti posti di lavoro. Da questa banale equazione nascono lo storico rapporto conflittuale con l’odierna FCA (34 mila dipendenti in Italia), il tira e molla sull’Ilva (10 mila lavoratori coinvolti), o i più recenti scontri sulle concessioni autostradali (7000 dipendenti direttamente toccati).

Ha sempre funzionato un po’ per tutto, funzionerà certamente anche con la grande industria (statunitense) della tecnologia. No?
No.

Apple è l’azienda con il più alto capitale azionario del mondo. Non stupisce che nel 2016 l’allora premier Matteo Renzi sia andato personalmente a ricevere Tim Cook, e sia magari stato genuinamente convinto del fatto che assecondare il progetto della “Apple Academy” a Napoli (poi malamente naufragato, eppur rinnovato dall’attuale premier Giuseppe Conte) fosse una buona idea. Grande industria = grandi investimenti = tanti posti di lavoro.
Ma…
Apple conta, oggi in Italia, 1624 dipendenti. E sulla pagina web dedicata all’argomento (pubblicata anni fa, in risposta allo scandalo dei 13 miliardi di dollari di tasse non pagate in Europa sfruttando la complicità dell’Irlanda) ostenta il merito di altri 62 mila posti, nicchiando sul fatto che la stragrande maggioranza degli sviluppatori di app mobile lavorano (necessariamente) anche su piattaforma Android e pertanto tale numero non è certo un merito esclusivo di Apple.

Google non è certo da meno, in termini di dimensioni e impatto. Il recente annuncio di 900 milioni di investimenti nel nostro Paese ha scaldato i cuori del già citato premier Conte e della ministra Paola Pisano, i quali indubbiamente colgono le opportunità della digitalizzazione per le piccole e medie imprese italiane. E forse un po’ meno le opportunità negate a chi si occupa di digitalizzazione in Italia, ma che importa? Grande industria = grandi investimenti = tanti posti di lavoro.
Ma…
Non è chiaro quanti siano i dipendenti di Google in Italia. L’unico suggerimento che trovo online risale al 2012, e menziona 130 lavoratori nella sede di Milano. Esiste un’altra sede in Italia (cioé quella di Roma), e possiamo generosamente arrotondare tale numero a 300. Non esattamente le cifre che sarebbe lecito aspettarsi per una azienda che fattura 46 miliardi di dollari all’anno.

“Ma Bob, la fai troppo semplice! I posti di lavoro offerti da queste aziende saranno forse pochi, ma altamente qualificati e ad alto valore aggiunto!”.
No.

Le offerte pubblicate per l’Italia tanto da Apple che da Google sono in massima parte rivolte a personale che si occupa del marketing, delle vendite, qualche volta dell’assistenza tecnica. Niente di diverso rispetto a quanto si può trovare, per dire, tra le proposte di Unieuro (5000 dipendenti). Ricerca e sviluppo – appunto, i lavori che rendono di più e che ingenuamente si riconducono a queste realtà – avvengono interamente altrove, nei “paradisi fiscali” europei ed in massima parte negli Stati Uniti. Certamente ci sono tra questi anche tanti italiani che si sono trasferiti all’estero, all’estero vivono e lavorano, all’estero pagano le tasse, all’estero si fanno una famiglia. Chissà quanti tra i 29 mila giovani laureati che hanno lasciato il Belpaese solo nell’ultimo anno oggi producono ricchezza in Irlanda, in Svizzera, o in California.

I metodi e le aspettative della politica industriale sono rimaste invariate nei decenni, e vengono applicate tanto alle automobili quanto ai servizi web. Ma dove mancano le variabili dei grandi impianti, le costanti della logistica e gli esponenti del consumo, la classica ed amata semplice equazione non funziona più. E serve una nuova algebra industriale per far quadrare i conti.

Il Terreno Fertile

31 agosto 2010

Qualche tempo addietro la redazione di TechCruch Europe, filiale nostrana del rinomato TechCrunch statunitense, ha invitato i lettori a scrivere articoli in merito alla situazione tecno/sociale dei Paesi del Vecchio Continente al fine di collezionare qualche impressione di prima mano sullo stato di salute delle locali startups tecnologiche e dell’ambiente in cui si muovono. Ed io ho ben pensato di comporre un brano sulla condizione italiana. Il pezzo e’ stato bellamente ignorato e non ho ricevuto risposta alcuna, vuoi perche’ forse un pochino melodrammatico, vuoi perche’ fortemente inconcludente, vuoi perche’ la mia traduzione in lingua inglese non era esattamente impeccabile.

Sta di fatto che lo ripropongo ora qui nella versione originale (appunto in italiano; per decenza e pudore evito di pubblicare la copia vagliata), affinche’ il mio – opinabile – sforzo letterario non sia del tutto disperso.

Tengo a precisare che non si tratta di un editoriale ma di un post enumerativo, non porta a nessuno spunto concreto ma mira semplicemente a fornire al lettore straniero un quadro dell’approccio tricolore all’information technology. Dato il pubblico di riferimento, il perno intorno cui ruota l’argomentazione e’ il mondo del business, ed in questa occasione ho menzionato il software libero (o, meglio, l’opensource) solo marginalmente e come condimento alla tesi portante; contenuto assai inusitato per questo mio blog spiccatamente comunitario, ma che nel bene e nel male rispecchia la mia posizione sulle potenzialita’ e sulle piaghe del Bel Paese.

L’Italia potrebbe essere un terreno estremamente fertile per l’innovazione digitale. Abbiamo il piu’ alto numero al mondo di smartphone e connessioni 3G pro-capite, con un bacino di potenziali consumatori di contenuti mobili immenso. Abbiamo imprese multinazionali leader nei rispettivi settori, tra cui FIAT, ST Microelectronics, Enel, e Finmeccanica, sempre piu’ inclini al mondo dell’Information Technology ed intorno a cui orbita un fortissimo indotto (per esempio: in Torino, sede appunto dell’azienda automobilistica FIAT, buona parte delle aziende IT sviluppano soluzioni per l’automotive). Abbiamo una delle community opensource piu’ popolose ed attive del pianeta, con centinaia di Linux User Groups sparpagliati su tutto il territorio nazionale entro cui giovani e veterani scambiano idee, conoscenze ed esperienze, ed in cui maturano competenze altissime. Abbiamo risorse ambientali, storiche e culturali infinite, le quali attraggono ogni anno milioni di turisti desiderosi di fruire di servizi di informazione ed approfondimento.

L’Italia potrebbe essere un terreno estremamente fertile per l’innovazione digitale. Ma non lo e’. Dal 2005 esiste una legge percui non e’ concesso condividere una connessione wireless con qualcuno che non abbia fornito i propri documenti di identita’, e percui copia di tali documenti deve essere conservata per un lungo periodo di tempo affinche’ le Forze dell’Ordine possano essere informate su chi si e’ connesso all’Internet in un dato giorno ad una data ora da un dato luogo. La connettivita’ in fibra ottica esiste solo in alcune zone delle piu’ grandi citta’, e del resto il 20% della popolazione non e’ raggiunta da alcun tipo di connessione in banda larga ed e’ completamente tagliata fuori da ogni forma di mercato telematico. Per aprire una “Societa’ a Responsabilita’ Limitata” (l’equivalente statunitense della “Limited Liability Company”) occorre un capitale sociale di 10000 euro, cifra difficilmente raccimolabile da qualsiasi giovanotto con una idea da sviluppare e su cui costruire una attivita’. I piu’ antichi e radicati problemi del Paese (la lotta alla mafia, i fenomeni sismici, il tasso di invecchiamento piu’ alto al mondo) da sempre mettono in secondo piano l’evoluzione tecnologica nei programmi politici interni e nella pubblica opinione, e non esiste nessuno stimolo statale per la ricerca e lo sviluppo. La burocrazia certamente esiste in ogni angolo del globo, ma qui non esiste nessuno sportello online per sbrigare le proprie pratiche ed ogni singolo modulo (ivi compresa l’autocertificazione con cui si garantisce di non essere collusi con enti mafiosi) va presentato a mano presso una serie di uffici spesso distanti tra loro.

L’Italia potrebbe essere un terreno estremamente fertile per l’innovazione digitale. A causa delle suddette difficolta’ la concorrenza e’ scarsa, quasi tutte le realta’ che operano nel settore sono dedicate alla manutenzione di gestionali scritti anni fa’ in Visual Basic. Il mercato non ha “nicchie” ma “voragini” intere. Io ne sono convinto, e sebbene abbia avuto modo di osservare piu’ di un episodio finito male sto attualmente mettendo ordine tra le idee con l’intento di mettere insieme qualcosa di buono. I progetti non mancano, le buone intenzioni neanche, i modelli di business da esplorare sono molteplici. Ammetto di essere frenato dinnanzi alle incognite del nostro sistema fiscale bizantino, percui spesso l’ammontare delle tasse da pagare e’ stabilito in modo scorrelato rispetto all’effettivo reddito ed il rischio di dover sborsare allo Stato piu’ di quanto non finisca in tasca e’ reale, ma con la consulenza di una mezza dozzina di commercialisti amici degli amici confido di cavare il bandolo dalla matassa.

Cristoforo Colombo (italiano, nato nei pressi di Genova) dovette farsi finanziare dagli spagnoli il suo viaggio verso le Indie, sfociato poi nella scoperta delle Americhe. Leonardo da Vinci (italiano, dalla Toscana), negli ultimi anni della sua vita, migro’ in Francia per trovare l’apprezzamento negato in patria per le sue opere ed il suo genio. Molti sono i giovani italiani che ogni anno preferiscono abbandonare il Paese, pensando che la situazione qui sia irrecuperabile o nella migliore delle ipotesi riparabile in tempi molto lunghi, e buona parte di essi ottiene all’estero piu’ di quanto abbiano mai osato sperare entro i sacri confini. Ma io preferisco stare qui, e fare personalmente quel che c’e’ da fare. Perche’ l’Italia e’ un terreno estremamente fertile per l’innovazione digitale.

Conflitto di Interessi

24 agosto 2010

Terzo post consecutivo in cui parlo della relazione tra software libero ed affari economici: staro’ mica diventando un po’ opensource anche io?

Dopo aver osservato chi guadagna molto facendo poco e chi guadagna poco facendo molto, questa volta ci soffermiamo sul rapporto che intercorre tra le due categorie. Constatando che, piu’ spesso di quanto non si creda, le persone son sempre le stesse.

Tra i temi piu’ spinosi e contrastati che occasionalmente si sussurrano all’interno della community nostrana, senza peraltro mai sfociare in un dibattito vero e proprio e restando addirittura quasi un tabu’ da evitare, c’e’ quello della concorrenza (presunta o reale, lo vedremo) che i gruppi linuxofili operano ai danni delle piccole societa’ che offrono servizi (a pagamento) analoghi a quelli erogati (gratuitamente) dai LUG. La sostanza di questo ragionamento e’ abbastanza evidente: se, ad esempio, una scuola decide di migrare a Linux e deve scegliere tra l’assistenza da parte di una azienda o il supporto dello User Group locale, molto spesso finisce con l’optare per la soluzione piu’ economica (lo User Group, per inciso, che agisce o senza compenso o accontentandosi di una donazione all’associazione), lasciando a bocca asciutta chi con la fattura di quel lavoro ci si sarebbe comprato la pagnotta.

In breve, la questione e’ questa. In breve, la mia posizione e’: “bella cagata”.

Partiamo dall’assunto che tale ritrosia allo spirito di competizione e’ una estensione dell’inclinazione al mutuo soccorso che accomuna noi italiani, da sempre soggetti a guerre tra fazioni (“Noi siamo da secoli / Calpesti, derisi, / Perche’ non siam popolo / Perche’ siam divisi“) o schiacciati da entita’ di piu’ alto livello (la Mafia, il Governo colluso con la Mafia, la Chiesa…). Gli italiani sono cosi’ poco propensi alla competizione che recentemente pure il New York Times ha scritto un articolo in merito, provocando certo moti di stupore tra i lettori statunitensi. Nessuno si e’ mai eretto contro il reverse engineering del protocollo NetBIOS all’interno del progetto Samba obiettando che la povera Microsoft avrebbero perso potenziali clienti, ma se qualcuno suggerisce di fare altrettanto con un prodotto closed source italiano un’altro risponde che non sarebbe “corretto”.

La seconda considerazione e’ che spesso i membri attivi dei LUG sono anche coloro che campano svolgendo le stesse attivita’, dunque sono in una posizione di conflitto di interessi seconda solo a quella di Berlusconi. Questo fattore e’ noto da sempre, ma personalmente mi e’ apparso lampante durante una recente chiaccherata con alcuni rappresentanti del LUG di Biella che lo hanno ammesso in modo distinto. In condizioni particolari si potrebbe arrivare al punto di dubitare della buona fede di chi promuove il software libero per poi rifiutarsi di svolgere il lavoro di migrazione per “non rubare il pane a chi lo fa di mestiere”. Che spesso e’ lui stesso. In tale scenario i membri non-professionisti del LUG vengono meramente utilizzati come canale pubblicitario, affinche’ convettano e diffondano le lodi proprie del freesoftware per poi essere bloccati nel momento in cui c’e’ da agire, per dare spazio a chi agisce emettendo fattura. Configurazioni di tal fatta ancora non ne ho viste, ma solo intuite in un paio di occasioni: spero che non siano la norma, ma certo il dubbio e’ lecito constatando la ridotta attivita’ concreta di numerosissimi Users Groups “capitanati” da professionisti del settore.

Laddove non si manifesti tale bieco conflitto di interessi, il ragionamento puo’ essere capovolto pur mantenendo il suo significato: se sono i LUG a creare il “mercato”, ovvero il desiderio e la necessita’ di migrare al software libero presso aziende o enti pubblici, sostanzialemente il concetto distorto e’ che essi rubino il pane che loro stessi sfornano. Senza attivita’ di promozione condotte localmente ben pochi dei potenziali clienti si porrebbero il problema di usare Linux o qualsiasi altro componente a sorgente aperta nel proprio ambiente, pertanto non esisterebbe affatto la richiesta su cui i professionisti campano. A questo punto, che il lavoro sporco sia condotto gratuitamente o a pagamento non conterebbe nulla, perche’ nessuno ne avrebbe bisogno.

In ultimo, l’osservazione in assoluto meno politically correct: se una azienda specializzata in produzione/configurazione/installazione di software open non e’ in grado di offrire a giusto prezzo un servizio migliore di quello offerto da un pugno di sfaccendati nerd cui piace smanettare nel tempo libero, e’ meglio per tutti se lasciano perdere ed aprono un banchetto ortofrutticolo al mercato. Se l’azienda IT italiana pretende di restare in eterno quella che e’ stata negli ultimi dieci o piu’ anni, ovvero uno spaccio di pessimo software customizzato alla meno peggio da far strapagare a qualche cliente appropriatamente circùito, intimamente preferirei vederli andare tutti in bancarotta. Non si aiuta l’economia locale chiudendo un occhio sul suo scarso valore, ma anzi mettendola sotto assedio per istigarla a reagire. Se la community agisse come si suppone che debba agire, sarebbero un ottimo esempio di “disruptive innovation”: una ondata di competenze di base messe a disposizione a costo nullo o quasi, che lascerebbe dietro di se’ una scia di morte economica e distruzione industriale su cui ricostruire un intero nuovo mondo di offerte e servizi qualificati con fondamenta meglio piantate nel terreno dell’innovazione.

Fin troppo spesso si lamenta una assenza di supporto di tipo “business” a Linux, si imputa alla mancanza di assistenza professionale la mancata penetrazione del freesoftware in settori produttivi delicati ed esigenti. Chi copre queste aree? Dov’e’ colui che risponde a questa forte richiesta di mercato? Chi e’ cosi’ sicuro delle proprie competenze da assumersi la responsabilita’, cosi’ come dovrebbe fare ogni societa’? I margini di crescita esistono, esistono in abbondanza, ma fintantoche’ le “prede facili” (soprattutto le piccole aziende senza tante pretese che necessitano di una qualche forma di informatizzazione) sono lasciate a disposizione nessuno osa fare il passo per colmare la lacuna, nessuno accenna ad accollarsi rischi, e tutti si accontentano di barcamenarsi alla meno peggio.

Chi agisce per passione e curiosita’ e voglia non dovrebbe avere remore, o temere di ostacolare l’interesse altrui. Se questo “altrui” e’ davvero capace di fare il suo mestiere sara’ in grado di trovare alla perfezione il suo ruolo. Altrimenti perira’, come e’ giusto che sia. Questa e’ la chiave dell’Evoluzione.

Questo Uccidera’ Quello

18 agosto 2009

Ieri sera e’ accaduto un fatto che offre una ricca serie di spunti di riflessione sull’essenza del software libero, e vorrei qui esporre le successive elucubrazioni nella speranza che possano tornare utili a chi si e’ posto certe domande ed ancora non ha ottenuto risposta.

Il fatto: ho rilasciato la versione 0.1.0 di un mio modestissimo programmino che permette di seguire l’avvicendarsi dei nuovi threads su 4chan, popolare image board estremamente attiva ed oramai divenuta uno dei pilastri della cultura Internettiana, ed ho ben pensato di annunciarne la disponibilita’ su 4chan stesso, nel canale dedicato alla tecnologia (/g/, per la precisione). Alla precisazione che l’applicativo e’ solo per Linux ho ricevuto una ondata di commenti negativi, sul fatto che nessuno se ne sarebbe curato e che era totalmente inutile, ed un poco alla volta sono giunte minacce sul proposito di rubare il codice, togliere il mio nome, e rilicenziarlo con un formato totalmente incompatibile con la GPLv3 per il solo gusto di farmi un dispetto, facendo leva sul fatto che da solo non avrei certamente potuto intraprendere una azione legale internazionale per violazione di copyright.

Sorvolando sull’infantilita’ dei miei interlocutori – ma in fin dei conti non ci si poteva aspettare di meglio da un forum noto per essere punto d’origine dei peggiori scherzi della Rete – occasioni come queste sono ottime per raccogliere percezioni e sentimenti di chi, consapevolmente o meno, e’ ostile al software libero ed alle sue modalita’ di diffusione.

Per molti l’idea di distribuire il codice sorgente del proprio sforzo programmatorio equivale ad un suicidio intellettuale, in quanto ogni riferimento al realizzatore primo dell’opera – e di conseguenza il riconoscimento e la glorificazione della paternita’, spesso unico motivo della distribuzione gratuita del software – e’ alla merce’ di qualsivoglia lestofante, che con un edit ed un giro di compilazione puo’ assegnare a se’ stesso il merito della composizione e farne cio’ che piu’ gli garba (ivi compreso trarne profitto economico, che penso sia il massimo affronto nei confronti di uno sviluppatore freeware). Il “furto di merito”, in una cultura principalmente meritocratica come e’ appunto quella del freesoftware e del freeware, e’ assimilabile al furto di denaro contante nel mondo reale contemporaneo, anzi e’ forse anche piu’ grave poiche’ il riconoscimento della bravura e dell’abilita’ del programmatore e’ l’unico ed assoluto mezzo con cui si e’ identificati all’interno dell’ecosistema sociale di riferimento. Secondo tale visione essere privati del proprio copyright sul proprio programma equivale ad essere privati non solo del lavoro, ma anche della possibilita’ di ottenerne un’altro, in una spirale di perdizione ed autodistruzione che spaventa chiunque sia anche solo vagamente tentato di condividere il codice sorgente e preferisce dunque tenerselo ben stretto.

Sia ben chiaro che tale affezione all’ego informatico non e’ esclusivo dei programmatori freeware, ma e’ diffusamente sentito anche dai programmatori freesoftware – come gia’ detto, entrambi i sistemi si poggiano su una meritocrazia di fatto – e non poche sono state le occasioni in cui ho personalmente raccolto dubbi e perplessita’ dai piu’ disparati esponenti della community open in merito ai rischi che comporta la messa a nudo dell’opera intellettuale e la (apparente, come vedremo) inclinazione alla predazione. Cio’ indica che, per quanto spesso il desiderio di avvantaggiare non il singolo individuo ma l’intero gruppo di riferimento sia forte, taluni non sono pienamente convinti di cio’ che fanno e perseverano sulla strada della condivisione quasi per inerzia.

Ebbene: io ritengo tali timori ancestrali e destinati a sparire spontaneamente nel corso del tempo, vestigia di un tempo lontano lontano in cui non esisteva l’Internet.

Partiamo da qualche presupposto di base, scontato ma che e’ bene chiarire subito:

  1. taroccare un software closed per alterarne il copyright non e’ tanto piu’ difficile che taroccarne uno open. I decompilatori per qualsiasi linguaggio di programmazione abbondano, ed anzi con un po’ di fortuna basta un semplice editor esadecimale per individuare la stringa che riporta il nome dell’autore e sostituirla con cio’ che piu’ aggrada. Indi per cui l’idea che tenendo il codice per se’ si evita qualsiasi illecito e’ totalmente infondata, una falsa sicurezza
  2. nonostante il presupposto di cui sopra, non mi risultano casi in cui qualcuno ha rubato la proprieta’ intellettuale di un’altro e ne ha cavato grandi benefici, tantomeno ostacolando il vantaggio dello sviluppatore originario. Inutile tirarla per le lunghe: nel sottobosco delle produzioni amatoriali sono ben poche le applicazioni impareggiabili ed insostituibili, moltissime – la maggior parte – sono replicabili partendo da zero nel giro di una settimana, ed illudersi che il proprio prodotto sopra tutti gli altri analoghi possa essere cosi’ interessante da essere rubato e/o possa aprire le porte a chissa’ quale notorieta’ e’ indice di presunzione che mai sara’ soddisfatta

Detto cio’, enunciamo un concetto semplice ma che rappresenta l’importante nodo di fondo da sciogliere: quel che preme preservare non e’ il software, ma la dichiarazione di paternita’. Banale, ma non scontato. La volonta’ di non rendere pubblico il sorgente coincide esattamente con la volonta’ di non rendere vulnerabile la dicitura sul copyright, che alla fine e’ il vero obiettivo delle premure del programmatore. Abbiamo gia’ visto che pur se consegnato in forma binaria il programma puo’ comunque essere falsificato, e tanto basterebbe a chiudere la questione, ma la vera domanda e’: basta un nome ed un cognome nella finestrella di “About” per garantire l’assoluta certezza in merito al creatore dell’opera? Basta scolpire le proprie iniziali sulla corteccia di un albero per dichiarare che il parco in cui si trova e’ a noi intitolato? A tal proposito il Notre Dame de Paris di Victor Hugo (e piu’ precisamente nel Libro 5, Capitolo II, “This Will Kill That”, reperibile in inglese qui) e’ assai esplicito, e le congetture sul rapporto tra architettura e stampa – la seconda ha preso il posto della prima, potenziandone i significati – sono splendidamente traducibili anche nel rapporto tra stampa ed Internet: la forza e l’immortalita’ di una espressione non si misura nella profondita’ con cui essa e’ scolpita nella roccia, ma quanto essa sara’ riproducibile ed accessibile al prossimo.

Per tornare al caso concreto, ed alla storia di apertura di questo brano. Sebbene non abbia particolare interesse nel difendere la proprieta’ intellettuale del mio stupido programma, facilmente re-implementabile in pochi giorni da qualsiasi mediocre programmatore, ho comunque voluto provare ad ingegnarmi per individuare la miglior forma di protezione a disposizione. E con discreta sorpresa mi sono reso conto che la soluzione e’ lapalissiana: per far sapere a tutti di essere l’autore di un programma, occorre comunicarlo. Ho aggiunto il mio progettino su OpenDesktop, su Ohloh e su Freshmeat, tre noti siti che indicizzano applicazioni opensource rendendone facile il reperimento e la scoperta da parte degli altri utenti, ma soprattutto riportano la data di inserimento e (nel caso di Ohloh) importano l’intero repository SVN mettendone in evidenza l’intera storia di modifiche e correzioni, si’ da placare ogni possibile incertezza sull’andamento dello sviluppo. Da oggi chiunque dichiarera’ di essere autore del programma, e per quanto egli possa alterare tutti gli headers in cui compare il mio nome e il nome originario del software, potra’ essere facilmente sbugiardato puntando il dito verso la quantita’ di tracce lasciate in giro sull’Internet dal vero ed unico autore, per cui la mole di servizi (gratuiti) sopra citati fanno da muti ed inconsapevoli garanti. Un po’ come nel secolo scorso si usava spedire a se’ stessi in busta chiusa e sigillata documenti importanti, lasciando che un ente autorevole e legittimato (le Poste) apponesse il suo timbro con il giorno il mese e l’anno del recapito, e tanto bastava per valere come prova della data di stesura del documento stesso in sede di tribunale.

Ma di tribunali non ci sara’ mai bisogno: solo un pazzo, o una persona immensamente motivata, potrebbe intentare causa ad un burlone dalla parte opposta del pianeta al solo scopo di essere riabilitato dalla societa’ civile. La societa’ tecnocratica in cui i programmatori domestici si muovono, invece, si accontenta di riconoscere il valore del singolo, e di ostracizzare chi non rispetta le regole del gioco: tutti sono consapevoli di quanto possa essere una facile tentazione quella di rieditare i sorgenti per farli apparire come propri, tutti sono ugualmente sensibili dinnanzi a tale potenziale abuso, nessuno sara’ disposto a perdonare o a tacere su un atto criminale di tal fatta, tanto piu’ efferato perche’ fondato sulla buona intenzione del creatore del software. Di tribunali non c’e’ bisogno, perche’ sono tutti giudici.

Tra poggiare ogni propria convinzione su una semplice frase all’interno del programma ed avere mezza Internet come testimone c’e’ una discreta differenza, ma gia’ so che questo non basta a rispondere ad ogni titubanza.

Ad esempio: se non vengo a sapere che qualcuno sta’ sfruttando il mio lavoro? Assai probabile, ed in tal caso “occhio non vede, cuore non duole”. Ma nel momento in cui dovesse essere intercettato un uso non conforme alla licenza applicata sara’ facile individuare il responsabile: poiche’ l’unico profitto che si trae dalla distribuzione di codice open e’ la costruzione della propria reputazione assieme alla copia non autorizzata ci sara’ un nome che vuol farsi elogiare, e spesso un indirizzo mail (nonche’ un paese di origine, e da li’ con qualche ricerca un indirizzo di residenza, per coloro con istinti particolarmente vendicativi…). Triangolare un usurpatore e’ semplice quando tale personaggio compie il gesto per il solo scopo di essere identificato.

E ancora: se qualcuno chiude il sorgente, come faccio a dimostrare che e’ opera mia? Questo e’ un po’ piu’ complicato, e sebbene non impossibile (esistono tecniche di analisi statica dei binari per tracciare i comportamenti di due programmi e dunque capire se uno e’ stato tratto dall’altro) stando al punto 2 dell’elenco sopra riportato e’ totalmente inutile: avendo due o piu’ programmi che fanno la stessa cosa gli utilizzatori saranno portati a scegliere quello migliore, ed il valore aggiunto della disponibilita’ del sorgente (con tutte le conseguenti implicazioni: certezza dell’assenza di malware, spyware, apprezzamento dei valori del software libero…) si sta imponendo verso ogni fascia di pubblico.

Insomma: le minacce di un gruppetto di ragazzini non sono bastate ad incrinare neppur minimamente la mia fiducia nel modello free, anzi mi ha offerto l’ennesima e sempre gradita occasione di riflessione (nonche’ una mole di visite al sito di TuxChan, essendo stato implicitamente pubblicizzato senza ritegno nella fase di affermazione della paternita’: 19 downloads in meno di 24 ore li ritengo un piccolo successo). Mi stupisco come invece molti si lascino intimorire da simili spauracchi, dalle pretese di furto e isolamento, paradossalmente limitando la diffusione del proprio parto creativo nel vano ed ingiustificato sforzo di detenerne un controllo che comunque non puo’ essere assoluto.

Questo uccidera’ quello. Il freesoftware uccidera’ il freeware. Perche’ tu sei solo, noi siamo tanti.

Gli Esami non Finiscono Mai

18 aprile 2009

Sebbene abbia una esperienza professionale come sviluppatore software lunga piu’ di tre anni, e da ancora piu’ tempo realizzi piccoli e grandi progetti (per lo piu’ rilasciati in licenza free), non smetto mai di imparare e scoprire di avere lacune. Non mi riferisco qui ovviamente a nozioni su particolari tecnologie, che inevitabilmente non si possono approfondire tutte a causa del loro crescente proliferare, ma proprio all’arte della programmazione.

Non nascondo che il “segreto del mio successo” stia nel fatto che sia nato e cresciuto come developer di software free: guardando l’altrui codice ho imparato i fondamenti ed appreso buona parte dei concetti essenziali e delle tecniche avanzate, il mio primo impiego l’ho ottenuto in virtu’ della mia immeritata fama di “programmatore Linux” nei primi anni dell’universita’ ed il secondo (a tutt’ora in corso) grazie al Progetto Lobotomy, su cui da anni perdo la testa, e a tutt’oggi ricevo continuamente offerte di lavoro e collaborazione dalle persone piu’ disparate che sono incappate in una qualche mia opera a sorgente aperto e, constatando la passione che metto nella produzione di applicazioni che dono poi in licenza open, chiedono una mia partecipazione.

Ma non di sola carriera professionale vive il nerd, e da qualche giorno, a seguito del mio parziale abbandono della community torinese (dovuto a motivazioni che magari esporro’ in un’altro post), ho deciso di far convergere le mie risorse nel mondo del vero software libero, e dei grandi progetti per i quali Linux ed il freesoftware e’ cosi’ noto, diffuso ed apprezzato. Un conto e’ implementare e rilasciare qualche programmino piu’ o meno utile con una scarsissima o inesistente base di utenza, un’altro il fatto di aggregarsi agli immensi sforzi profusi dalla community (quella effettiva, che produce il codice su cui tante speculazioni filosofiche e morali vengono applicate) e fare quello che s’ha da fare.

Cosi’ ho scaricato il codice di DBus (uno dei componenti alla base del moderno Linux su desktop), gli ho dato una occhiata, ho individuato un commento che indicava la necessita’ di revisionare una certa funzione ed ho spedito una patch ai maintainer.

Indipendentemente dalla bonta’ della patch, con orgoglio leggo il commento che Havoc Pennington (che non e’ uno che passava di la’) mi ha con estrema cortesia elargito: dalla manciata di righe che ho spedito egli ha tratto una quantita’ di suggerimenti ed indicazioni sulla leggibilita’ e sulla logica applicata non solo estremamente sensate ma che non posso far altro che assorbire i saggi insegnamenti, i quali immancabilmente andranno a ricadere nella mia produzione professionale ed amatoriale. Si tratta solo di pochi spunti, i quali pero’ rappresentano i tasselli di cui si compone la consapevolezza che qualsiasi developer deve portare con se’ nel momento in cui dal suo lavoro dipendono i dati, le informazioni, i lavori e le vite altrui.

Gia’ in passato ho provato ad “ingegnerizzare” il contatto tra giovani programmatori freelance col pallino per la GPL e mondo dell’impresa, cui qualche smanettone di supporto non farebbe mai male, all’interno del progetto Barberaware; non ho mai avuto grande successo, e mi piange il cuore nel continuare a vedere come i miei coetanei non riescano a capacitarsi dell’immenso beneficio che trarrebbero nello sviluppo di prodotti open. E se prima limitavo tali vantaggi alla visibilita’ sul mercato del lavoro ed all’accumulo di esperienza a cio’ aggiungo adesso l’esposizione delle proprie capacita’ ad individui con capacita’ ed esperienze ancora piu’ grandi ed in grado di valutare, correggere, ed indirettamente contribuire alla propria crescita personale.

Aldila’ dei sermoni sulle liberta’ e l’etica del freesoftware, la produzione di sorgente libero e’ una rapida strada per raggiungere l’eccellenza in campo tecnologico; per me il cammino e’ ancora lungo, e l’episodio sopra accennato ne e’ la dimostrazione, ma mi sento di spronare gli aspiranti (o gia’ scafati) programmatori ad intraprendere la stessa via, per far del bene a tutti ma soprattutto a se’ stessi.